[...] To realize the relative validity of one’s convictions and yet stand for them unflinchingly is what distinguishes a civilized man from a barbarian.

–Joseph Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy

lunedì 14 aprile 2014

Discorso all'OM-IVECO per il 25 aprile

14 aprile 2014; h 14:00
FIAT – OM IVECO


Care lavoratrici e lavoratori dell’IVECO,
            devo confessare una certa emozione nell’intervenire davanti a voi in questa occasione; e certamente l’emozione è accresciuta anche dal fatto di dover parlare da giovane in nome dell’associazione che rappresenta chi ha combattuto la guerra di Liberazione, e cioè l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Una scelta, quella dell’ANPI di coinvolgere i giovani nelle celebrazioni e nella vita dell’associazione, che vuole incarnare il senso della continuità del messaggio della Resistenza anche oltre i limiti della generazione che ha vissuto direttamente l’oppressione nazifascista, provando a tradurre i valori che hanno guidato la Resistenza partigiana nelle sfide dell’oggi.
D’altronde è la Resistenza la radice di tutte le libertà riconquistate dopo vent’anni di dittatura e delle conquiste nuove, come quei diritti di libertà, che hanno portato prima ad una Costituzione di una Repubblica “fondata sul lavoro”, e poi a portare la Costituzione dentro i cancelli delle fabbriche ed a definire i diritti che si chiamano diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla casa, alla pensione, a un’equa distribuzione.
Sono diritti che per trovare soddisfazione hanno richiesto e richiederanno altre lotte, ma lotte democratiche che si possono realizzare senza il pericolo di nuova oppressione e di deportazioni perché non c’è più la dittatura a sopprimere ogni espressione del libero pensiero.
Ci è stato dato quindi, soprattutto un nuovo diritto: il diritto di opposizione. Possibilità quindi di reclamare pacificamente gli altri diritti, spesso, ad ora, rimasti solo sulla carta.
Siamo sicuramente in un momento difficile per la storia socio-economica del nostro paese. Nonostante ci venga detto di anno in anno che la crisi è ormai alla fine, vediamo i dati sulla disoccupazione crescere di mese in mese. E più pericolosamente sentiamo sulla nostra pelle questi dati, li vediamo parlando con i nostri amici e parenti alla ricerca di lavoro, li vediamo nelle serrande abbassate dei negozi falliti, li vediamo periodicamente sotto la Loggia grazie all’attenzione costante, importante e coraggiosa dei lavoratori MAC, che giustamente non accettano di essere lasciati soli, abbandonati, licenziati, da una fabbrica e, vista la mobilità del mercato del lavoro, da un paese.

Ed è quindi importante ricordarlo questo 25 aprile che in molti non vorrebbero più nemmeno festeggiare come festa nazionale. Ci hanno provato per ultimi Monti e Berlusconi a togliere i festeggiamenti per la Festa della Liberazione. L’idea sembra fu inizialmente di Licio Gelli, nel suo “Piano di rinascita democratica”, ma questa è tutt’un’altra storia.
Si vuole togliere il 25 aprile perché l’economia di mercato ha le sue regole, chiede meno feste e più lavoro, meglio se con stipendi più bassi.
E quindi è dissonante rispetto a questi mantra economicisti, una festa nazionale dove si ricorda, come diceva Padre Giulio Bevilacqua, che “Le idee valgono per quello che costano, non per quello che rendono”. Insomma dove si parla di ricerca, di cultura, di vita, non del guadagno, che sembra essere diventato l’unica bussola di questi tempi moderni.

Vorrei ricordare oggi in particolare gli scioperi che nel 1944, esattamente settant’anni fa, segnarono profondamente il clima della guerra in Alta Italia, dimostrando l’incapacità della repubblica di Salò di gestire la crescente opposizione interna al regime.

Mi piace partire allo slogan che più di ogni altro è stato caratteristico di quei giorni, e cioè “Pane, pace e libertà!”
Tre parole simbolo della Resistenza e che possono ancora guidare le lotte dell’oggi

La prima parola, pane, si richiama alle drammatiche condizioni di lavoro cui la crisi economica del 1929 prima, e la politica economica fascista poi, avevano ridotto la classe operaia. Orari di lavoro che toccavano spesso le 12 ore al giorno per 6 giorni alla settimana; un sistema del cottimo con un minimo obbligatorio di fatto impossibile da raggiungere; licenziamenti per chi protestava e rigida disciplina;      salari che dal 1938 al 1943 aumentano mediamente del 10% a fronte di un aumento dei prezzi di circa 6 volte nel mercato ufficiale, ed ancora di più sul mercato nero, al quale però era necessario rivolgersi per acquistare alcuni alimenti altrimenti introvabili come l’olio.
Persino nei rapporti dei carabinieri della Legione di Brescia, si potevano leggere alcuni riferimenti preoccupati a questa situazione in cui gli stipendi si rivelavano inadeguati al costo della vita, rendendo il prezzo della vita chiaramente insostenibile

E la risposta a questa situazione fu lo sciopero. La riscoperta di quello strumento che, se oggi è un diritto sancito nell’articolo 40 dalla nostra Carta Costituzionale, allora era un reato sanzionato penalmente da quasi vent’anni.
Ed è importante il dato dei vent’anni di assenza di questo diritto, perché, come ricorda Pietro Secchia, “la grande maggioranza dei giovani combattenti nelle formazioni, allo stesso modo di quelli che lavoravano nelle fabbriche, conoscevano per la prima volta il valore di questa arma potente: lo sciopero generale; conoscevano per la prima volta la grande forza dell’unità di classe operaia”. “Uomini e donne che il fascismo credeva di aver ridotto ad un branco di idioti affermavano così la loro volontà di pace e il loro diritto alla vita” sottolineano anche altri storici.

Ed allora in questo piazzale facevano la guardia le SS tedesche con i mitra spianati, pronte a reprimere col sangue qualsiasi accenno d’insurrezione. Ed allora l’OM e le Fabbriche di Gardone Valtrompia producevano armi per i nazisti e per i fascisti. Ed allora Brescia doveva essere, nei progetti di Mussolini, il cuore del risorto regime della Repubblica Sociale Italiana. Scioperare a Brescia aveva un significato speciale ed una difficoltà altrettanto speciale. Esserci riusciti fa onore a questa città ed a questa fabbrica, che fin dai primi giorni successivi la caduta di Mussolini del 25 luglio 1943, si distinse per impegno nella difficile testimonianza dell’opposizione al regime.

Le manifestazioni a Brescia iniziarono il pomeriggio del 26 luglio del 1943, quando, mentre alcuni operai rimanevano nella fabbrica astenendosi comunque dal lavoro, circa duecento lavoratori dell’OM sfilarono in corteo fino a piazza Garibaldi con bandiere tricolori. Durante il percorso il corteo si era ingrossato, e qualcuno aveva issato un piccolo straccetto rosso su un bastone, a mo’ di bandiera. Si riuscì anche a tenere un breve comizio alla Pallata, prima che  il corteo venisse disperso dai Carabinieri, costringendo però il Questore a comunicare ai superiori che “le manifestazioni stanno assumendo carattere spiccatamente sovversivo.”

Nonostante due arresti ed alcuni feriti, già il 29 luglio i rappresentanti dei partiti antifascisti si incontravano con il prefetto per cominciare a cambiare la rigida struttura corporativa che avrebbe dovuto essere il sindacato fascista, ottenendo che due membri del Fronte del Lavoro venissero nominati commissari della Confederazione dei sindacati fascisti.
L’OM scioperò ancora contro la guerra ed il fascismo all’indomani dell’8 settembre, prima che le truppe tedesche, aiutate dalle milizie di Salò, riprendessero in mano la situazione in città.
Si arrivò così al grande sciopero del 2 marzo 1944, che coinvolse gli stabilimenti Breda e OM, con una piattaforma insieme sindacale e politica: aumento dei beni razionati e della quantità di grassi, mensa migliore, cuoio per le scarpe e copertoni per le bici; elezione di rappresentanti dei lavoratori e liberazione degli arrestati.
Dopo il successo di questo sciopero ne seguirono a cascata altri per motivi analoghi in molte fabbriche bresciane; intanto dentro l’OM nacquero i combattivi gruppi di resistenza dei GAP  e dei SAP, che si occuparono di acquisire, grazie a rocambolesche azioni, armi ed alimenti per i resistenti, nonché di tenere alto il morale dei compagni di lavoro dipingendo di nascosto scritte sui muri della fabbrica contro il fascismo e a favore della Resistenza.

Il 20 luglio del 1944 gli operai OM scioperarono nuovamente per mantenere nello stabilimento i macchinari ed i mezzi di produzione che i tedeschi volevano portare in Germania, dimostrando così attaccamento alla fabbrica e coscienza del ruolo dell’industria del futuro, a guerra terminata: una lungimiranza che si manifesterà ancora nel corso dell’anno 1944 e nei primi mesi del 1945, anche a costo di arresti, torture, uccisioni, ed anche di fronte ai bombardamenti del 10 marzo 1945, dopo i quali gli operai difesero tenacemente i macchinari rimasti integri.
E davanti a questo impegno da parte degli operai alla liberazione d’Italia e della provincia, assume anche un senso particolare il fatto che la completa liberazione della nostra città si ottenne solo il 1 maggio 1945, festa dei lavoratori, cancellata durante la dittatura di Mussolini

E tra quei giovani scioperanti ci sarebbe potuto essere anche Giuseppe Gheda se non avesse già fatto la sua scelta. Se non avesse già preso la vita dei monti.
Ricordo la storia di Gheda, del comandante “Bruno”, con particolare emozione per due motivi. Il primo è di natura oggettiva: ci troviamo in fabbrica, nel luogo in cui Gheda, medaglia d’argento al valor militare, lavoro ed imparò a fare politica. Il secondo è invece di natura soggettiva: quando Gheda morì sul Sonclino, il 19 aprile 1945, ad una sola settimana dal 25 aprile, aveva vent’anni, esattamente la mia età. Credo anche l’età di molti vostri figli.
Un’età che però non gli impedì di ricoprire ruoli di grande responsabilità all’interno delle brigate partigiane. Un’età che non gli impedì di avere il coraggio necessario per scegliere con decisione da che parte stare. Non era chiamato alle armi, non rischiava di essere deportato, aveva un lavoro sicuro in una fabbrica di armi, la migliore garanzia a quei tempi, e non possedeva alcun addestramento militare. Eppure, quando il partito comunista clandestino chiama alla ribellione, Gheda risponde e lascia queste sue piccole sicurezze per degli ideali più grandi.
Ci sarebbero molte altre cose da ricordare su Gheda, a partire dal suo testamento morale dove si legge “la vera umanità consiste nel condividere le sofferenze della comunità”, ma oggi credo che abbia particolarmente senso incontrarlo in una semplice frase. È il commento che Lino Pedroni, partigiano, storico presidente dell’ANPI bresciana venuto a mancare nell’ultimo inverno, che vide morire il partigiano Bruno davanti ai suoi occhi sul Sonclino, diceva quando voleva ricordare il suo vecchio amico. “Bruno era il migliore di tutti”, diceva.
E bastava.

Sarebbe tuttavia errato considerare quegli scioperi come proteste solamente di natura economica. Economico era solo uno degli obiettivi dello sciopero. Quelli principali erano obiettivi politici: la pace e la libertà.

La pace settant’anni fa era la fine di una guerra che andava avanti da anni, che aveva causato sofferenze e lutti in tutte le famiglie italiane, che aveva portato a campagne disastrose che avevano umiliato l’Italia fascista, disperdendo gli alpini in Russia, subendo sconfitte umilianti in tutta Europa e avevano avuto come conseguenza un’Italia divisa fra Nord in mano ai tedeschi e Sud controllato dagli alleati.
Ma non era nemmeno solo questo. Era il rifiuto completo di un’ideologia che basava tutto sulla guerra. Fin da bambini si era inquadrati in formazioni paramilitari, figli della lupa, avanguardisti, giovani del littorio, etc., si sapeva che “Libro e moschetto / Fascista perfetto”, che bisognava “Credere, obbedire e combattere” e che i giovani erano soprattutto “l’esercito di domani”. La richiesta di pace era il definitivo rifiuto di questa ideologia che “aveva trasformato l’Italia in una grande caserma”, che anteponeva il soldato al lavoratore, il controllo coloniale alla convivenza tra popoli, la tirannide alla democrazia. E dico la tirannide alla democrazia perché è raro che dei popoli liberi e democratici facciano guerre. Perché le guerre raramente sono desiderate dal popolo, dalle madri che vedono i figli andare al fronte, solitamente le guerre le vogliono le aziende che desiderano guadagnare sulle commesse belliche o i dittatori che desiderano avere altri popoli su cui comandare. Mai i lavoratori.

“Offro questo mio ultimo istante per la pace nel mondo” ha scritto nella sua ultima lettera il giovane operaio Bruno Pelizzari, fucilato nel 1945 a soli 23 anni
E la nostra Costituzione repubblicana ha tratto le conseguenze di ciò, ha accolto il desiderio di pace espresso in quegli scioperi di settant’anni fa all’articolo 11, con le meravigliose parole “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. Un rifiuto chiaro, sia etico che giuridico. E quella parola ripudia, propria del linguaggio giuridico collegato alla rottura del legame matrimoniale, sembra quasi la definitiva rottura dello strettissimo rapporto che legava il fascismo con la guerra e la X flottiglia Mas con la morte, con la quale, dicevano gli slogan ufficiali, quella brigata faceva l’amore.

Ma oggi siamo in pace, o abbiamo guerre mascherate in giro per il mondo? E se siamo in pace, che senso ha comprare ancora armamenti sempre più grandi, sempre più letali? Le risposte a queste domande sono politica, e ciascuno ha le sue opinioni in merito. Ma il porsi questi quesiti è civiltà. È mantenere alta l’attenzione verso quei valori che i martiri della Resistenza ci hanno insegnato verso il mondo che ci circonda.

Parlando di pace oggi, credo che sia anche importante pensare anche Unione Europea. Da quell’organizzazione che nel 1950 Robert Shumann, allora ministro degli Esteri francese definiva come il mezzo per rendere “la guerra in Europa [è] non solo impensabile, ma materialmente impossibile”
Anche per questo devo ammettere che mi sconcerta che questa campagna elettorale per le prossime elezioni europee sia iniziata così tardi e sembra solo con slogan o la riproposizione dei temi italiani. Mi sconcerta perché sembra davvero che di Europa, della formazione delle istituzioni europee, delle dinamiche e delle prossime leggi europee non abbia più senso parlare. Che di Europa non si voglia più parlare. Come se l’idea europea fosse ormai superata, un retaggio di illusioni post-belliche di pace e fratellanza, tanto che ormai si tagliano anche quei fondi che servivano, con il progetto Erasmus, a permettere ai giovani di vedere l’Europa, di diventare davvero cittadini europei.
Ascoltando le tribune politiche sembra quasi che l’Europa sia nata da delle decisioni di dei burocrati che a Berlino o a Bruxelles si divertivano a pensare di controllare i nostri conti pubblici per tagliare il nostro stato sociale.
Ci siamo forse dimenticati che l’unità europea è nata dal sacrificio di coloro che poco meno di ottant’anni fa si diressero in Spagna a combattere per la legittima repubblica contro la dittatura franchista, che l’Europa è nata dall’impegno di coloro che, degnamente rappresentati per Brescia da Italo Nicoletto, ebbero il coraggio di combattere in Spagna, Francia, ed Italia per gli stessi ideali. Contro le stesse tirannie. Lì è nata l’Europa. Dall’impegno di studio di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi che, a Ventotene, al confino, ebbero il sogno, e forse allora era più un’illusione, di scrivere un documento politico per la fondazione degli Stati Uniti d’Europa.
L’Unione Europea è nata dal sangue dei partigiani della 122^ Garibaldi come da quello dei “maquis” francesi o dei giovani resistenti tedeschi della Rosa Bianca. Da persone che non si conoscevano le une con le altre, ma che combattevano per lo stesso fine su di un panorama continentale.
E dopo la vittoria i sopravvissuti cosa potevano fare? Rinchiudersi ancora ciascuno nei propri confini? sarebbe stato facile... Provare a ricostruire l’autarchia nazionale altrettanto. E con quella perché non dire ancora che gli italiani sono i migliori? Perché non aprire nuovi campi di concentramento per gli altri, per i diversi? La scelta che fu fatta fu però diversa. E fu di ricercare la nostra storia comune. Le nostre comuni esperienze. Non, come fu fatto con il patto atlantico o con il patto di Varsavia, per continuare altre guerre, altre contrapposizioni ma per ritrovarci uniti in una cultura condivisa, in delle scelte comuni di pace e di garanzia di diritti e di libertà.
In questo senso andava il progetto della Costituzione Europea! E se quest’Europa ha tradito le aspettative nostre ed il sacrificio delle persone che abbiamo ricordato, non possiamo semplicemente denunciare come fallita quest’esperienza, ma ripartire, scrivere delle regole migliori, trovare nuovi diritti da proteggere, dare vera rappresentanza a tutte le componenti che formano il Popolo Europeo. Chiudersi. Pensare di rialzare i muri, le frontiere militari ed economiche è da folli.
Dobbiamo, anche sul grande panorama europeo, continuare a credere nel sogno comune che “la guerra, mai più!”, “che i nazionalismi nazi-fascisti mai più”.

Arriviamo quindi all’ultima parola di quello slogan che risuonava per Brescia e per tutta l’Alta Italia settant’anni fa: libertà.
“Abbiamo combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per chi non c’era e anche per chi era contro” diceva il partigiano Arrigo Boldrini, e la libertà è stata forse la massima aspirazione del movimento resistenziale.

Libertà dalle leggi fascistissime, libertà dai tedeschi invasori, libertà da uno stato di polizia. E libertà di esprimere la propria idea, libertà di esercitare la professione desiderata, libertà essere diversi e di pensare diversamente dal capo.

Libertà insomma sia civili sia politiche, che verranno poi raccolte nel grande libro dei diritti della nostra repubblica, la già più volte citata Costituzione della Repubblica Italiana.
Una Costituzione che, nonostante i quasi settant’anni che molti politici considerano un buon motivo per rottamarla, riesce ancora, grazie soprattutto all’attività della Corte Costituzionale, a difendere le idee e le visioni di chi l’ha scritta.

Penso soprattutto alla sentenza che ha permesso ad uno dei sindacati più rappresentativi dei metalmeccanici, la FIOM, di rientrare in FIAT a difesa dei lavoratori, con una vittoria che non si più considerare della singola associazione o del singolo referente, ma del sistema democratico tutto.
Penso anche all’ultima sentenza della Corte Costituzionale che abroga una legge elettorale con le liste chiuse e che prevedeva un sistema maggioritario pesantissimo. E vorrei far notare come sia le liste chiuse, il “listone”, sia il sistema maggioritario, a partire dalla cosiddetta Legge Acerbo, siano due invenzioni del fascismo, e che permisero al fascismo di restare al governo così tanto tempo.
Perché ci sono tante forme di dittature. La più subdola è forse la dittatura della maggioranza. L’idea cioè, secondo la quale chi prende il 50 per cento più uno dei voti, possa decidere per tutti senza che all’opposizione vengano garantiti dei diritti e degli spazi di opposizione inderogabili. E questo sia nelle elezioni nazionali sia in quelle delle rappresentanze di fabbrica. L’assenza della possibilità di esprimere il proprio dissenso è la negazione delle fondamentali libertà politiche nate dalla Resistenza.

Ma la Costituzione non può tutto. E su certi argomenti è necessario che sia la politica a sollecitare un giusto dibattito ed a prendere delle scelte sagge e, come scrive il professorone Zagrebelsky, che ci si impegni per una “politica costituzionale”.
Penso sia alle proposte di riforma della nuova legge elettorale, che non sembra discostarsi eccessivamente da quella bocciata dalla Consulta: qualche ritocco formale, di chirurgia plastica più che di visione politica, che serve solo a nascondere meglio i semi di fascismo di cui abbiamo parlato.
E penso all’incapacità delle Istituzioni di risolvere i problemi migratori se non in dei campi di concentramento a cielo aperto, come i Centri di Identificazione e di Espulsione.
Ma penso, soprattutto, all’incapacità di dire qualcosa sulla globalizzazione industriale, che da strumento di crescita delle prospettive delle aziende, sia è trasformata in un incubo per i lavoratori italiani, che si vedono ridurre gli stipendi ed aumentare gli orari di lavoro sotto la costante minaccia di una sempre possibile “delocalizzazione”.
E spero che anche la più importante fusione degli ultimi anni, quella cioè fra FIAT e Chrysler, non porti a queste conseguenze, ma che possa solo essere uno strumento per aumentare le possibilità di impiego dei lavoratori. In ogni caso serve una politica che vegli su questi aspetti, e che forse non risolva la questione dicendo solo “la FIAT è un’azienda privata e può fare quello che vuole”, come abbiamo sentito dire qualche settimana fa da esponenti di primo piano del Governo.

Penso che la libertà sia anche poter entrare in fabbrica ed in generale nei luoghi di lavoro con i propri simboli. Con le proprie bandiere. Con le proprie rappresentanze. Con le proprie idee.
Speriamo possano essere finiti i tempi in cui si dovevano nascondere i propri simboli, e ricordo qui con particolare amarezza la commemorazione del 25 aprile dell’anno scorso, quando fu impedito per problemi sindacali di ritrovarsi davanti al cippo dei morti della Resistenza come invece abbiamo potuto fare questa mattina.
Due anni fa, in questa stessa occasione, Cesare Trebeschi diceva: “Finita la scuola abbiamo imparato - e a nostre spese - che la liberazione è un fatto concluso, la libertà non si conquista per sempre, si difende, si paga ogni giorno, ha un prezzo: non si può comprare la libertà senza verità”
Ho quindi paura per le nostre libertà di domani, soprattutto se guardo ai buchi neri che ci portiamo dietro nella nostra storia. Buchi neri senza verità, misteri, ferite, di cui la strage di Piazza Loggia è per noi forse il più doloroso.
Sono passati quasi quarant’anni, senza che si sia ancora riusciti a giungere a delle pene in sede  giudiziaria, ed anche se il processo si sta ancora svolgendo, temo che a questo punto, si possa dire che i depistaggi e le connivenze neofasciste in sede processuale abbiano drammaticamente vinto.
A questo punto penso stia a noi impegnarci per tenere viva quella memoria. La memoria di quelli che furono fin da subito definiti come i “nuovi martiri della Resistenza”. Sta a noi soprattutto portare avanti la memoria di un contesto e delle responsabilità individuali e politiche di quella bomba. Responsabilità che sono ormai certificate storicamente, anche se non definite personalmente nelle aule giudiziarie.
Questo per far sì che possa valere per l’oggi il discorso che Franco Castrezzati non è riuscito a completare, quel piovoso 28 maggio 1974. “La democrazia italiana è uscita vittoriosa da una prova difficile e maligna. Oggi è possibile, con il nostro impegno e la nostra lotta, farla più forte e più salda, farla invincibile.”
Questo deve essere il nostro impegno. Nato dai martiri partigiani dell’OM, della provincia, dell’Italia e dell’Europa. Riassunto nella Costituzione Repubblicana. Segnato dalla bomba del 28 maggio.

VIVA LE LAVORATRICI E I LAVORATORI!
VIVA LA LIBERTÀ!
VIVA LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA!
VIVA IL 25 APRILE!

ED ANCORA, SETTANT’ANNI DOPO, IN UN ALTRO CONTESTO, CON GLI STESSI SOGNI: “PANE, PACE E LIBERTÀ”