14 aprile 2014; h 14:00
FIAT – OM IVECO
Care
lavoratrici e lavoratori dell’IVECO,
devo confessare una certa emozione
nell’intervenire davanti a voi in questa occasione; e certamente l’emozione è
accresciuta anche dal fatto di dover parlare da giovane in nome
dell’associazione che rappresenta chi ha combattuto la guerra di Liberazione, e
cioè l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Una scelta, quella dell’ANPI
di coinvolgere i giovani nelle celebrazioni e nella vita dell’associazione, che
vuole incarnare il senso della continuità del messaggio della Resistenza anche
oltre i limiti della generazione che ha vissuto direttamente l’oppressione
nazifascista, provando a tradurre i valori che hanno guidato la Resistenza
partigiana nelle sfide dell’oggi.
D’altronde
è la Resistenza la radice di tutte le libertà riconquistate dopo vent’anni di
dittatura e delle conquiste nuove, come quei diritti di libertà, che hanno
portato prima ad una Costituzione di una Repubblica “fondata sul lavoro”,
e poi a portare la Costituzione dentro i cancelli delle fabbriche ed a definire
i diritti che si chiamano diritto al lavoro, alla salute, all’istruzione, alla
casa, alla pensione, a un’equa distribuzione.
Sono
diritti che per trovare soddisfazione hanno richiesto e richiederanno altre
lotte, ma lotte democratiche che si possono realizzare senza il pericolo di
nuova oppressione e di deportazioni perché non c’è più la dittatura a
sopprimere ogni espressione del libero pensiero.
Ci
è stato dato quindi, soprattutto un nuovo diritto: il diritto di opposizione.
Possibilità quindi di reclamare pacificamente gli altri diritti, spesso, ad ora,
rimasti solo sulla carta.
Siamo
sicuramente in un momento difficile per la storia socio-economica del nostro
paese. Nonostante ci venga detto di anno in anno che la crisi è ormai alla
fine, vediamo i dati sulla disoccupazione crescere di mese in mese. E più
pericolosamente sentiamo sulla nostra pelle questi dati, li vediamo parlando
con i nostri amici e parenti alla ricerca di lavoro, li vediamo nelle serrande
abbassate dei negozi falliti, li vediamo periodicamente sotto la Loggia grazie
all’attenzione costante, importante e coraggiosa dei lavoratori MAC, che
giustamente non accettano di essere lasciati soli, abbandonati, licenziati, da
una fabbrica e, vista la mobilità del mercato del lavoro, da un paese.
Ed
è quindi importante ricordarlo questo 25 aprile che in molti non vorrebbero più
nemmeno festeggiare come festa nazionale. Ci hanno provato per ultimi Monti e
Berlusconi a togliere i festeggiamenti per la Festa della Liberazione. L’idea
sembra fu inizialmente di Licio Gelli, nel suo “Piano di rinascita democratica”,
ma questa è tutt’un’altra storia.
Si
vuole togliere il 25 aprile perché l’economia di mercato ha le sue regole,
chiede meno feste e più lavoro, meglio se con stipendi più bassi.
E
quindi è dissonante rispetto a questi mantra economicisti, una festa nazionale
dove si ricorda, come diceva Padre Giulio Bevilacqua, che “Le idee valgono
per quello che costano, non per quello che rendono”. Insomma dove si parla
di ricerca, di cultura, di vita, non del guadagno, che sembra essere diventato
l’unica bussola di questi tempi moderni.
Vorrei
ricordare oggi in particolare gli scioperi che nel 1944, esattamente settant’anni
fa, segnarono profondamente il clima della guerra in Alta Italia, dimostrando
l’incapacità della repubblica di Salò di gestire la crescente opposizione
interna al regime.
Mi
piace partire allo slogan che più di ogni altro è stato caratteristico di quei
giorni, e cioè “Pane, pace e libertà!”
Tre
parole simbolo della Resistenza e che possono ancora guidare le lotte dell’oggi
La
prima parola, pane, si
richiama alle drammatiche condizioni di lavoro cui la crisi economica del 1929
prima, e la politica economica fascista poi, avevano ridotto la classe operaia.
Orari di lavoro che toccavano spesso le 12 ore al giorno per 6 giorni alla
settimana; un sistema del cottimo con un minimo obbligatorio di fatto
impossibile da raggiungere; licenziamenti per chi protestava e rigida
disciplina; salari che dal 1938 al 1943 aumentano
mediamente del 10% a fronte di un aumento dei prezzi di circa 6 volte nel mercato
ufficiale, ed ancora di più sul mercato nero, al quale però era necessario
rivolgersi per acquistare alcuni alimenti altrimenti introvabili come l’olio.
Persino
nei rapporti dei carabinieri della Legione di Brescia, si potevano leggere
alcuni riferimenti preoccupati a questa situazione in cui gli stipendi si
rivelavano inadeguati al costo della vita, rendendo il prezzo della vita
chiaramente insostenibile
E
la risposta a questa situazione fu lo sciopero. La riscoperta di quello
strumento che, se oggi è un diritto sancito nell’articolo 40 dalla nostra Carta
Costituzionale, allora era un reato sanzionato penalmente da quasi vent’anni.
Ed
è importante il dato dei vent’anni di assenza di questo diritto, perché, come
ricorda Pietro Secchia, “la grande maggioranza dei giovani combattenti nelle
formazioni, allo stesso modo di quelli che lavoravano nelle fabbriche,
conoscevano per la prima volta il valore di questa arma potente: lo sciopero
generale; conoscevano per la prima volta la grande forza dell’unità di classe
operaia”. “Uomini e donne che il fascismo credeva di aver ridotto ad un branco
di idioti affermavano così la loro volontà di pace e il loro diritto alla vita”
sottolineano anche altri storici.
Ed
allora in questo piazzale facevano la guardia le SS tedesche con i mitra
spianati, pronte a reprimere col sangue qualsiasi accenno d’insurrezione. Ed
allora l’OM e le Fabbriche di Gardone Valtrompia producevano armi per i nazisti
e per i fascisti. Ed allora Brescia doveva essere, nei progetti di Mussolini,
il cuore del risorto regime della Repubblica Sociale Italiana. Scioperare a
Brescia aveva un significato speciale ed una difficoltà altrettanto speciale.
Esserci riusciti fa onore a questa città ed a questa fabbrica, che fin dai
primi giorni successivi la caduta di Mussolini del 25 luglio 1943, si distinse
per impegno nella difficile testimonianza dell’opposizione al regime.
Le
manifestazioni a Brescia iniziarono il pomeriggio del 26 luglio del 1943,
quando, mentre alcuni operai rimanevano nella fabbrica astenendosi comunque dal
lavoro, circa duecento lavoratori dell’OM sfilarono in corteo fino a piazza
Garibaldi con bandiere tricolori. Durante il percorso il corteo si era
ingrossato, e qualcuno aveva issato un piccolo straccetto rosso su un bastone,
a mo’ di bandiera. Si riuscì anche a tenere un breve comizio alla Pallata,
prima che il corteo venisse disperso dai
Carabinieri, costringendo però il Questore a comunicare ai superiori che “le
manifestazioni stanno assumendo carattere spiccatamente sovversivo.”
Nonostante
due arresti ed alcuni feriti, già il 29 luglio i rappresentanti dei partiti
antifascisti si incontravano con il prefetto per cominciare a cambiare la
rigida struttura corporativa che avrebbe dovuto essere il sindacato fascista,
ottenendo che due membri del Fronte del Lavoro venissero nominati commissari
della Confederazione dei sindacati fascisti.
L’OM
scioperò ancora contro la guerra ed il fascismo all’indomani dell’8 settembre,
prima che le truppe tedesche, aiutate dalle milizie di Salò, riprendessero in
mano la situazione in città.
Si
arrivò così al grande sciopero del 2 marzo 1944, che coinvolse gli stabilimenti
Breda e OM, con una piattaforma insieme sindacale e politica: aumento dei beni
razionati e della quantità di grassi, mensa migliore, cuoio per le scarpe e
copertoni per le bici; elezione di rappresentanti dei lavoratori e liberazione
degli arrestati.
Dopo
il successo di questo sciopero ne seguirono a cascata altri per motivi analoghi
in molte fabbriche bresciane; intanto dentro l’OM nacquero i combattivi gruppi
di resistenza dei GAP e dei SAP, che si
occuparono di acquisire, grazie a rocambolesche azioni, armi ed alimenti per i
resistenti, nonché di tenere alto il morale dei compagni di lavoro dipingendo
di nascosto scritte sui muri della fabbrica contro il fascismo e a favore della
Resistenza.
Il
20 luglio del 1944 gli operai OM scioperarono nuovamente per mantenere nello
stabilimento i macchinari ed i mezzi di produzione che i tedeschi volevano
portare in Germania, dimostrando così attaccamento alla fabbrica e coscienza
del ruolo dell’industria del futuro, a guerra terminata: una lungimiranza che
si manifesterà ancora nel corso dell’anno 1944 e nei primi mesi del 1945, anche
a costo di arresti, torture, uccisioni, ed anche di fronte ai bombardamenti del
10 marzo 1945, dopo i quali gli operai difesero tenacemente i macchinari
rimasti integri.
E
davanti a questo impegno da parte degli operai alla liberazione d’Italia e
della provincia, assume anche un senso particolare il fatto che la completa
liberazione della nostra città si ottenne solo il 1 maggio 1945, festa dei
lavoratori, cancellata durante la dittatura di Mussolini
E
tra quei giovani scioperanti ci sarebbe potuto essere anche Giuseppe Gheda se
non avesse già fatto la sua scelta. Se non avesse già preso la vita dei monti.
Ricordo
la storia di Gheda, del comandante “Bruno”, con particolare emozione per due
motivi. Il primo è di natura oggettiva: ci troviamo in fabbrica, nel luogo in
cui Gheda, medaglia d’argento al valor militare, lavoro ed imparò a fare
politica. Il secondo è invece di natura soggettiva: quando Gheda morì sul
Sonclino, il 19 aprile 1945, ad una sola settimana dal 25 aprile, aveva
vent’anni, esattamente la mia età. Credo anche l’età di molti vostri figli.
Un’età
che però non gli impedì di ricoprire ruoli di grande responsabilità all’interno
delle brigate partigiane. Un’età che non gli impedì di avere il coraggio
necessario per scegliere con decisione da che parte stare. Non era chiamato
alle armi, non rischiava di essere deportato, aveva un lavoro sicuro in una
fabbrica di armi, la migliore garanzia a quei tempi, e non possedeva alcun
addestramento militare. Eppure, quando il partito comunista clandestino chiama
alla ribellione, Gheda risponde e lascia queste sue piccole sicurezze per degli
ideali più grandi.
Ci
sarebbero molte altre cose da ricordare su Gheda, a partire dal suo testamento
morale dove si legge “la vera umanità consiste nel condividere le sofferenze
della comunità”, ma oggi credo che abbia particolarmente senso incontrarlo
in una semplice frase. È il commento che Lino Pedroni, partigiano, storico
presidente dell’ANPI bresciana venuto a mancare nell’ultimo inverno, che vide
morire il partigiano Bruno davanti ai suoi occhi sul Sonclino, diceva quando
voleva ricordare il suo vecchio amico. “Bruno era il migliore di tutti”,
diceva.
E
bastava.
Sarebbe
tuttavia errato considerare quegli scioperi come proteste solamente di natura
economica. Economico era solo uno degli obiettivi dello sciopero. Quelli
principali erano obiettivi politici: la pace e la libertà.
La
pace settant’anni fa era la
fine di una guerra che andava avanti da anni, che aveva causato sofferenze e
lutti in tutte le famiglie italiane, che aveva portato a campagne disastrose
che avevano umiliato l’Italia fascista, disperdendo gli alpini in Russia,
subendo sconfitte umilianti in tutta Europa e avevano avuto come conseguenza
un’Italia divisa fra Nord in mano ai tedeschi e Sud controllato dagli alleati.
Ma
non era nemmeno solo questo. Era il rifiuto completo di un’ideologia che basava
tutto sulla guerra. Fin da bambini si era inquadrati in formazioni
paramilitari, figli della lupa, avanguardisti, giovani del littorio, etc., si
sapeva che “Libro e moschetto / Fascista perfetto”, che bisognava “Credere,
obbedire e combattere” e che i giovani erano soprattutto “l’esercito di
domani”. La richiesta di pace era il definitivo rifiuto di questa ideologia che
“aveva trasformato l’Italia in una grande caserma”, che anteponeva il soldato
al lavoratore, il controllo coloniale alla convivenza tra popoli, la tirannide
alla democrazia. E dico la tirannide alla democrazia perché è raro che dei
popoli liberi e democratici facciano guerre. Perché le guerre raramente sono
desiderate dal popolo, dalle madri che vedono i figli andare al fronte,
solitamente le guerre le vogliono le aziende che desiderano guadagnare sulle
commesse belliche o i dittatori che desiderano avere altri popoli su cui
comandare. Mai i lavoratori.
“Offro
questo mio ultimo istante per la pace nel mondo” ha scritto nella sua ultima lettera il giovane
operaio Bruno Pelizzari, fucilato nel 1945 a soli 23 anni
E
la nostra Costituzione repubblicana ha tratto le conseguenze di ciò, ha accolto
il desiderio di pace espresso in quegli scioperi di settant’anni fa
all’articolo 11, con le meravigliose parole “L’Italia ripudia la guerra come
strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”. Un rifiuto chiaro,
sia etico che giuridico. E quella parola ripudia, propria del linguaggio
giuridico collegato alla rottura del legame matrimoniale, sembra quasi la
definitiva rottura dello strettissimo rapporto che legava il fascismo con la
guerra e la X flottiglia Mas con la morte, con la quale, dicevano gli slogan
ufficiali, quella brigata faceva l’amore.
Ma
oggi siamo in pace, o abbiamo guerre mascherate in giro per il mondo? E se
siamo in pace, che senso ha comprare ancora armamenti sempre più grandi, sempre
più letali? Le risposte a queste domande sono politica, e ciascuno ha le sue
opinioni in merito. Ma il porsi questi quesiti è civiltà. È mantenere alta
l’attenzione verso quei valori che i martiri della Resistenza ci hanno
insegnato verso il mondo che ci circonda.
Parlando
di pace oggi, credo che sia anche importante pensare anche Unione Europea. Da
quell’organizzazione che nel 1950 Robert Shumann, allora ministro degli Esteri
francese definiva come il mezzo per rendere “la guerra in Europa [è] non
solo impensabile, ma materialmente impossibile”
Anche
per questo devo ammettere che mi sconcerta che questa campagna elettorale per
le prossime elezioni europee sia iniziata così tardi e sembra solo con slogan o
la riproposizione dei temi italiani. Mi sconcerta perché sembra davvero che di
Europa, della formazione delle istituzioni europee, delle dinamiche e delle
prossime leggi europee non abbia più senso parlare. Che di Europa non si voglia
più parlare. Come se l’idea europea fosse ormai superata, un retaggio di
illusioni post-belliche di pace e fratellanza, tanto che ormai si tagliano
anche quei fondi che servivano, con il progetto Erasmus, a permettere ai
giovani di vedere l’Europa, di diventare davvero cittadini europei.
Ascoltando
le tribune politiche sembra quasi che l’Europa sia nata da delle decisioni di dei
burocrati che a Berlino o a Bruxelles si divertivano a pensare di controllare i
nostri conti pubblici per tagliare il nostro stato sociale.
Ci
siamo forse dimenticati che l’unità europea è nata dal sacrificio di coloro che
poco meno di ottant’anni fa si diressero in Spagna a combattere per la legittima
repubblica contro la dittatura franchista, che l’Europa è nata dall’impegno di
coloro che, degnamente rappresentati per Brescia da Italo Nicoletto, ebbero il
coraggio di combattere in Spagna, Francia, ed Italia per gli stessi ideali.
Contro le stesse tirannie. Lì è nata l’Europa. Dall’impegno di studio di Altiero
Spinelli ed Ernesto Rossi che, a Ventotene, al confino, ebbero il sogno, e
forse allora era più un’illusione, di scrivere un documento politico per la
fondazione degli Stati Uniti d’Europa.
L’Unione
Europea è nata dal sangue dei partigiani della 122^ Garibaldi come da quello
dei “maquis” francesi o dei giovani resistenti tedeschi della Rosa Bianca. Da
persone che non si conoscevano le une con le altre, ma che combattevano per lo
stesso fine su di un panorama continentale.
E
dopo la vittoria i sopravvissuti cosa potevano fare? Rinchiudersi ancora
ciascuno nei propri confini? sarebbe stato facile... Provare a ricostruire
l’autarchia nazionale altrettanto. E con quella perché non dire ancora che gli
italiani sono i migliori? Perché non aprire nuovi campi di concentramento per
gli altri, per i diversi? La scelta che fu fatta fu però diversa. E fu di
ricercare la nostra storia comune. Le nostre comuni esperienze. Non, come fu
fatto con il patto atlantico o con il patto di Varsavia, per continuare altre
guerre, altre contrapposizioni ma per ritrovarci uniti in una cultura condivisa,
in delle scelte comuni di pace e di garanzia di diritti e di libertà.
In
questo senso andava il progetto della Costituzione Europea! E se quest’Europa
ha tradito le aspettative nostre ed il sacrificio delle persone che abbiamo
ricordato, non possiamo semplicemente denunciare come fallita quest’esperienza,
ma ripartire, scrivere delle regole migliori, trovare nuovi diritti da
proteggere, dare vera rappresentanza a tutte le componenti che formano il
Popolo Europeo. Chiudersi. Pensare di rialzare i muri, le frontiere militari ed
economiche è da folli.
Dobbiamo,
anche sul grande panorama europeo, continuare a credere nel sogno comune che “la
guerra, mai più!”, “che i nazionalismi nazi-fascisti mai più”.
Arriviamo quindi all’ultima parola di quello slogan che risuonava per Brescia e per tutta l’Alta Italia settant’anni fa: libertà.
“Abbiamo
combattuto assieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era, per
chi non c’era e anche per chi era contro” diceva il partigiano Arrigo
Boldrini, e la libertà è stata forse la massima aspirazione del movimento
resistenziale.
Libertà
dalle leggi fascistissime, libertà dai tedeschi invasori, libertà da uno stato
di polizia. E libertà di esprimere la propria idea, libertà di esercitare la
professione desiderata, libertà essere diversi e di pensare diversamente dal
capo.
Libertà
insomma sia civili sia politiche, che verranno poi raccolte nel grande libro
dei diritti della nostra repubblica, la già più volte citata Costituzione della
Repubblica Italiana.
Una
Costituzione che, nonostante i quasi settant’anni che molti politici
considerano un buon motivo per rottamarla, riesce ancora, grazie soprattutto
all’attività della Corte Costituzionale, a difendere le idee e le visioni di
chi l’ha scritta.
Penso
soprattutto alla sentenza che ha permesso ad uno dei sindacati più
rappresentativi dei metalmeccanici, la FIOM, di rientrare in FIAT a difesa dei
lavoratori, con una vittoria che non si più considerare della singola
associazione o del singolo referente, ma del sistema democratico tutto.
Penso
anche all’ultima sentenza della Corte Costituzionale che abroga una legge
elettorale con le liste chiuse e che prevedeva un sistema maggioritario
pesantissimo. E vorrei far notare come sia le liste chiuse, il “listone”, sia
il sistema maggioritario, a partire dalla cosiddetta Legge Acerbo, siano due
invenzioni del fascismo, e che permisero al fascismo di restare al governo così
tanto tempo.
Perché
ci sono tante forme di dittature. La più subdola è forse la dittatura della
maggioranza. L’idea cioè, secondo la quale chi prende il 50 per cento più uno
dei voti, possa decidere per tutti senza che all’opposizione vengano garantiti
dei diritti e degli spazi di opposizione inderogabili. E questo sia nelle
elezioni nazionali sia in quelle delle rappresentanze di fabbrica. L’assenza
della possibilità di esprimere il proprio dissenso è la negazione delle
fondamentali libertà politiche nate dalla Resistenza.
Ma
la Costituzione non può tutto. E su certi argomenti è necessario che sia la
politica a sollecitare un giusto dibattito ed a prendere delle scelte sagge e,
come scrive il professorone Zagrebelsky, che ci si impegni per una “politica
costituzionale”.
Penso
sia alle proposte di riforma della nuova legge elettorale, che non sembra
discostarsi eccessivamente da quella bocciata dalla Consulta: qualche ritocco
formale, di chirurgia plastica più che di visione politica, che serve solo a
nascondere meglio i semi di fascismo di cui abbiamo parlato.
E
penso all’incapacità delle Istituzioni di risolvere i problemi migratori se non
in dei campi di concentramento a cielo aperto, come i Centri di Identificazione
e di Espulsione.
Ma
penso, soprattutto, all’incapacità di dire qualcosa sulla globalizzazione
industriale, che da strumento di crescita delle prospettive delle aziende, sia
è trasformata in un incubo per i lavoratori italiani, che si vedono ridurre gli
stipendi ed aumentare gli orari di lavoro sotto la costante minaccia di una
sempre possibile “delocalizzazione”.
E
spero che anche la più importante fusione degli ultimi anni, quella cioè fra
FIAT e Chrysler, non porti a queste conseguenze, ma che possa solo essere uno
strumento per aumentare le possibilità di impiego dei lavoratori. In ogni caso
serve una politica che vegli su questi aspetti, e che forse non risolva la
questione dicendo solo “la FIAT è un’azienda privata e può fare quello che
vuole”, come abbiamo sentito dire qualche settimana fa da esponenti di
primo piano del Governo.
Penso
che la libertà sia anche poter entrare in fabbrica ed in generale nei luoghi di
lavoro con i propri simboli. Con le proprie bandiere. Con le proprie
rappresentanze. Con le proprie idee.
Speriamo
possano essere finiti i tempi in cui si dovevano nascondere i propri simboli, e
ricordo qui con particolare amarezza la commemorazione del 25 aprile dell’anno
scorso, quando fu impedito per problemi sindacali di ritrovarsi davanti al cippo
dei morti della Resistenza come invece abbiamo potuto fare questa mattina.
Due
anni fa, in questa stessa occasione, Cesare Trebeschi diceva: “Finita la
scuola abbiamo imparato - e a nostre spese - che la liberazione è un fatto
concluso, la libertà non si conquista per sempre, si difende, si paga ogni
giorno, ha un prezzo: non si può comprare la libertà senza verità”
Ho
quindi paura per le nostre libertà di domani, soprattutto se guardo ai buchi
neri che ci portiamo dietro nella nostra storia. Buchi neri senza verità,
misteri, ferite, di cui la strage di Piazza Loggia è per noi forse il più
doloroso.
Sono
passati quasi quarant’anni, senza che si sia ancora riusciti a giungere a delle
pene in sede giudiziaria, ed anche se il
processo si sta ancora svolgendo, temo che a questo punto, si possa dire che i depistaggi
e le connivenze neofasciste in sede processuale abbiano drammaticamente vinto.
A
questo punto penso stia a noi impegnarci per tenere viva quella memoria. La
memoria di quelli che furono fin da subito definiti come i “nuovi martiri della
Resistenza”. Sta a noi soprattutto portare avanti la memoria di un contesto e
delle responsabilità individuali e politiche di quella bomba. Responsabilità
che sono ormai certificate storicamente, anche se non definite personalmente
nelle aule giudiziarie.
Questo
per far sì che possa valere per l’oggi il discorso che Franco Castrezzati non è
riuscito a completare, quel piovoso 28 maggio 1974. “La democrazia italiana
è uscita vittoriosa da una prova difficile e maligna. Oggi è possibile, con il
nostro impegno e la nostra lotta, farla più forte e più salda, farla
invincibile.”
Questo
deve essere il nostro impegno. Nato dai martiri partigiani dell’OM, della
provincia, dell’Italia e dell’Europa. Riassunto nella Costituzione
Repubblicana. Segnato dalla bomba del 28 maggio.
VIVA
LE LAVORATRICI E I LAVORATORI!
VIVA
LA LIBERTÀ!
VIVA
LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA!
VIVA
IL 25 APRILE!